Inclusione e accessibilità per tutti i cittadini, compresi quelli ciechi o ipovedenti. È questa la visione a cui tendere per un futuro migliore nelle città, in un mondo che sarà sempre più urbanizzato.
Marburgo, in Germania, è stata definita un modello per le persone cieche e ipovedenti, ma immaginare realtà urbane senza barriere anche in Italia non solo è un obiettivo possibile, ma realizzabile.
Esistono già gli strumenti per farlo, serve però investire in una maggiore ‘armonizzazione’ che tenga conto di tutti i cittadini e in una preparazione nella progettazione urbana ed architettonica. La situazione nel nostro Paese dal punto di vista della mobilità urbana e dell’accessibilità per le persone con disabilità visive è a macchia di leopardo, ma la strada è tracciata anche grazie al Peba (Piano Eliminazione Barriere Architettoniche), strumento tecnico normativo di cui le città si debbono dotare sin dagli anni Novanta.
Ad accompagnare i nostri lettori per mano attraverso le criticità già esistenti ancora da affrontare e quelle sorte con la pandemia (es. i monopattini, di cui è cresciuto esponenzialmente l’utilizzo) e gli obiettivi a cui tendere è Sergio Prelato, Consigliere con delega per la Mobilità UICI, Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti.
Marburgo, città della Germania centrale, in cui ha sede il Deutsche Blindenstudienanstalt (BLISTA), è stata definita dalla BBC “una città modello per le persone cieche ed ipovedenti”. Qual è la situazione in Italia dal punto di vista della mobilità urbana e dell’accessibilità per le persone con disabilità visive?
La nostra associazione da sempre e soprattutto negli ultimi trent’anni si è occupata di problematiche legate all’accessibilità urbana. La situazione in Italia è a macchia di leopardo.
Le nostre strutture territoriali e quelle nazionali hanno incentivato la conoscenza e l’applicazione pratica della normativa riguardante l’abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali.
Il PEBA (Piano Eliminazione Barriere Architettoniche) è uno strumento tecnico normativo di cui le città si debbono fornire sin dagli anni novanta.
In molte città, grandi e medie, ma anche in centri più piccoli, la cultura e le nozioni sugli accorgimenti concreti da attuare per rendere più facile e vivibile la vita a ciechi e ipovedenti, è cresciuta in modo esponenziale.
Semafori sonori, percorsi tattili a terra, infrastrutture come stazioni ferroviarie, metropolitane, fermate bus urbane e extraurbane hanno preso forma tenendo conto anche delle esigenze dei disabili visivi.
I tavoli tecnici a cui partecipiamo sono tanti e il lavoro da fare è ancora molto, ma si può dire che la strada è ormai stata tracciata.
Possiamo sempre imparare da altri paesi, ma non dobbiamo sentirci ne inferiori ne meno preparati, anche perchè stimoliamo sempre convegni e ricerche di soluzioni per rendere più sicure le città, ma la cosa più incredibile è che una città accessibile per noi è una città più sicura, bella e confortevole per tutti.
Le B.A. non riguardano solo le persone con disabilità, ma riguardano tutti noi, una città disordinata e piena di ostacoli, senza una coerenza strategica e strutturale, con degli standard di accessibilità precisi e ripetibili, affatica e rende la qualità della vita peggiore a tutti i cittadini.
“Mobilità sostenibile” e accessibilità: come si possono incentivare? Attraverso quali azioni?
La mobilità nel trasporto pubblico ha delle regole ben precise. Tutti i mezzi circolanti, gomma e ferro, debbono essere accessibili, in sostanza debbono avere sintesi vocali interne ed esterne, led sui mezzi ad alta leggibilità, infrastrutture adeguate.
Lo prevede la legge nazionale, europea, ma soprattutto le risorse finanziarie per acquistare nuovi mezzi è vincolata all’accessibilità degli stessi.
Anche lo sviluppo di nuove forme di noleggio e di fruizione di auto a pagamento, come taxi e altre metodologie più sviluppate in altri paesi, possono dare libertà di movimento.
Soprattutto però bisogna rendere accessibili le piattaforme digitali che governano questi servizi, che spesso sono non utilizzabili da ciechi e ipovedenti.
Come è cambiata l’antropologia urbana con la pandemia, e in particolare quella delle persone ipovedenti e non vedenti?
La pandemia ci ha messi subito in difficoltà. Mantenere le distanze e spostarsi per noi è stato difficile.
Ad esempio non poter salire dalla porta anteriore dei mezzi pubblici inizialmente è stato per noi non solo pericoloso, ma discriminante.
Noi saliamo dalla porta anteriore perchè i percorsi tattili a terra portano in testa alle pensiline dei bus, inoltre abbiamo bisogno di avere a portata di voce l’autista, in caso di inconvenienti, informazioni, ecc.
Ma soprattutto quando le sintesi vocali a bordo e all’esterno dei mezzi non funzionano, oppure non sono proprio presenti, rendendoci impossibile l’orientamento durante il viaggio.
La nostra associazione, l’UICI, si è attivata subito con le società dei trasporti e nelle maggiori città è stato raggiunto un accordo che prevedeva che i viaggiatori ciechi con cane guida e ciechi non accompagnati hanno potuto utilizzare i mezzi nel periodo pandemico nel solito modo.
Tutto questo sempre nel rispetto della sicurezza del personale e delle disposizioni emergenziali.
Purtroppo l’antropologia urbana è stata sconvolta in tutte le città dall’utilizzo sconsiderato e senza regole dei monopattini elettrici. Marciapiedi e aree pedonali sono state invase da questi mezzi, creando caos e ostacoli pericolosi per tutti, ma soprattutto per noi disabili visivi, ci hanno resi insicuri e preda di incidenti gravi.
La pandemia ha acuito questo problema, incentivando l’uso di mezzi alternativi ai mezzi pubblici. Quando la pandemia passerà, i monopattini resteranno e noi avremo ereditato una barriera in più.