Per asportare i meningiomi, tumori cerebrali nella maggior parte dei casi benigni, il passaggio transorbitario rappresenta un’opzione mininvasiva efficace. Il Professor Diego Strianese, direttore dell’oculoplastica della AOU Federico II di Napoli, spiega i vantaggi in questa intervista
Non è detto che la soluzione a prima vista più complicata sia quella più difficile e quindi da evitare, anzi forse è quella che riserva le migliori sorprese. Nel caso, ad esempio, dell’asportazione dei meningiomi sfenorbitari, una tipologia di tumori che origina dalle meningi, generalmente considerati benigni ma con potenziale “malignità” locale, la rimozione chirurgica utilizzando un approccio attraverso il cranio potrebbe sembrare una strada più semplice e diretta. Tuttavia gli studi hanno dimostrato che utilizzando approcci tradizionali che includono la craniotomia si espone il paziente ad una maggiore morbidità postoperatoria e soprattutto ad un numero di complicanze a carico della funzione visiva maggiore. In alternativa, lo sviluppo di tecniche mininvasive che utilizzano un accesso transorbitario consentono un’adeguata rimozione del tumore, una maggiore salvaguardia dell’occhio e delle strutture perioculari ed un più rapido ritorno ad una vita normale. Di recente, i chirurghi del Leeds Teaching Hospitals NHS Trust, in Inghilterra, hanno operato una paziente di 40 anni, che aveva un meningioma posizionato posteriormente all’occhio e adiacente al seno cavernoso, con una procedura chirurgica mininvasiva transorbitaria che lascia solo una piccola cicatrice palpebrale. L’intervento è stato realizzato da un team multidisciplinare, un indirizzo che permette da parte delle diverse figure professionali di salvaguardare le strutture anatomiche interessate, in particolare quelle deputate alla funzione visiva. In Italia sono pochi i centri che adottano l’approccio orbitario e sfruttano le peculiarità della multidisciplinarietà. Uno di questi è presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli, in particolare nel Dipartimento di Neuroscienze diretto dal Professor Ciro Costagliola, dove Diego Strianese è direttore dell’unità di oculoplastica ed orbita.
Da quando è tornato in Italia nel 2020, dopo una lunga esperienza all’estero in centri importanti, fra cui il Wilmer Eye Hospital ed il King Khaled Eye Specialist Hospital, affiliati alla Johns Hopkins University, School of Medicine, il Professor Strianese, docente di malattie dell’apparato visivo e direttore della Scuola di specializzazione in oftalmologia dell’Ateneo, ha voluto rafforzare la multidisciplinarietà e l’approccio mininvasivo del centro nella chirurgia oculare che ha dimostrato maggiore efficacia e una riduzione delle complicanze.
L’accesso orbitario potrebbe apparire a prima vista la strada più lontana per raggiungere il tumore al cervello. Perché invece è quella più efficace?
Il tipo di accesso sembrerebbe la strada più lunga ma in effetti è la più diretta e consente di effettuare una chirurgia mininvasiva che significa avere un taglio cutaneo minimo e nascosto nelle pieghe cutanee naturali, cosa che lo rende esteticamente accettabile, e ridurre la manipolazione dei tessuti circostanti al minimo indispensabile. La chiave di questa chirurgia è la riduzione della morbidità post operatoria, ciò significa che i tempi di recupero sono più brevi, così come la durata dell’intervento. Questo si traduce in un ritorno più rapido a casa e in una diminuzione delle complicanze.
Anche lei è specializzato in questo tipo di chirurgia.
La collaborazione tra oculisti altamente specializzati in chirurgia orbitaria e neurochirurgia è una realtà che esiste presso l’Università Federico II da alcuni decenni. Dopo un’esperienza lunga all’estero che include University of British Columbia e John Hopkins University ho assunto la leadership di un gruppo dedicato che esisteva già da 20 anni. La chirurgia orbitaria è intesa come super specializzazione degli specialisti in oculistica, in quanto presuppone una profonda conoscenza dell’occhio e dei suoi annessi, e ha come finalità primaria la preservazione ed eventualmente il miglioramento della funzione visiva. Abbiamo un’ampia casistica che riguarda l’asportazione di meningiomi sfenorbitari, e con il collega neurochirurgo Prof Mariniello abbiamo contribuito in maniera sostanziale alla letteratura ed alle linee guida inerenti tale patologi, in particolare sull’utilizzo delle tecniche di chirurgia mininvasiva.
Perché i meningiomi vengono rimossi?
I meningiomi sono generalmente tumori benigni dal punto di vista anatomo patologico, perché non danno luogo quasi mai a metastasi, ma hanno una cosiddetta ‘malignità locale’, in quanto il loro progressivo aumento di volume può determinare una compressione sulle strutture viciniori vitali con conseguenti danni locali ingenti. Questo è il motivo per cui il meningioma deve in genere essere rimosso. Tali tumori sono più frequenti nelle donne perché talvolta legati al ciclo degli estrogeni. È un tipo di lesione inoltre che può infatti riscontrare nelle persone che usano estrogeni per diversi motivi incluso cambio di sesso. È una patologia che colpisce fra i 40 e i 60 anni e può essere molto silenziosa perché ha crescita lenta e comincia a dare segni quando tocca strutture sensibili, come il nervo ottico per cui determina una riduzione della vista.
Quando questo tipo di tumori diventa troppo grande può essere estratto dall’orbita?
La diagnosi precoce, come sempre in medicina, è importante e lo è anche in questo caso, per cui occorrerebbe intervenire nelle fasi precoci o comunque non molto avanzate per rimuovere il tumore in maniera quanto più radicalmente possibile attraverso tecniche mininvasive. Esistono comunque delle tecniche, con approccio combinato orbitario e transnasale o transcranico, anche per grossi meningiomi sferoidali, attraverso incisioni comunque esteticamente accettabili.
Il coinvolgimento della chirurgia oftalmica potrebbe essere la via giusta per salvaguardare in questi casi il nervo ottico e le funzionalità dell’occhio stesso?
Ho sempre sostenuto la necessità che questo tipo di chirurgia venga eseguita da specialisti in oftalmologia che abbiano seguito un training specifico. Il chirurgo orbitario oftalmico quando opera ha la finalità di preservare quanto più la funzione visiva anche perché conosce l’anatomia e le strutture che supportano la funzione visiva. Auspico in questo senso che in Italia sempre più centri specializzati si sviluppino per coprire il territorio in maniera adeguata. Come direttore della scuola di specializzazione di Napoli in collaborazione con tutti i Direttori delle altre scuole di specializzazione in Oftalmologia d’Italia ci stiamo muovendo in sinergia in questa direzione.
All’estero è più diffuso questo tipo di specializzazione chirurgica?
Sì. In Inghilterra, negli Stati Uniti e in Olanda c’è una grande cultura della conoscenza della specificità della patologia orbitaria. Negli Stati Uniti, in particolare, c’è molta attenzione verso questa specializzazione e una tradizione consolidata. In Italia, bisogna lavorare ancora tantissimo. Come direttore della Scuola di specializzazione vorrei si sviluppasse la figura dell’oculista esperto in oculoplastica e in orbita in maniera routinaria, nel solco della consolidata tradizione anglosassone. Devo dire però che nei giovani sto vedendo un grande interesse e molti specializzandi proveniente da altre scuole frequentano con entusiasmo e passione il nostro centro con programmi di formazione esterna
Una chirurgia sempre più multidisciplinare è l’approccio corretto a cui tendere. In Italia siamo orientati verso questa direzione?
I segnali ci sono ma siamo ancora lontani dall’obiettivo. C’è l’esigenza forte di avere centri dedicati alla patologia orbitaria che abbiano un approccio multidisciplinare. Nella nostra struttura di Napoli, il gruppo multidisciplinare è stato istituito oltre venti anni fa dal Professore Bonavolontà ed è cresciuto tantissimo grazie al contributo nel tempo di molti colleghi appassionati come Adriana Iuliano, Giovanni Uccello, Patrizia Vassallo, Vittoria Lanni, Fausto Tranfa e con il supporto molto rilevante anestesiologico del Dipartimento diretto dal Professor Servillo. Nel resto del Paese esistono delle collaborazioni ma sono random, molto spesso con il privato e non istituzionalizzate nell’accademia. L’augurio è che l’Italia in pochi anni possa allinearsi in questo senso ai grandi Paesi ed assumere addirittura un ruolo leader in questo ambito.