Trapianto di cornea: nuove tecniche per ridurre le complicanze

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La prima causa di fallimento è il rigetto, ma come spiega il professor Dana Reza, direttore dell’Harvard-vision clinical scientist development program, esistono dei nuovi colliri promettenti

 

Sono fra i più comuni trapianti eseguiti nel mondo. Il primo trapianto di cornea al mondo fu realizzato oltre un secolo fa, ad opera di Eduard Zirm, nel dicembre del 1905.

Nel corso degli anni questa tecnica chirurgica ha visto segnare traguardi eccezionali grazie alla continua evoluzione nelle tecniche chirurgiche, ma anche per l’utilizzo più corretto e sicuro di vari colliri. “La necessità di trapiantare la cornea sorge quando questa è colpita da cheratocono, da un’infezione, una cicatrice, una lesione o da altre malattie immunologiche. Tali condizioni fanno sì che la cornea cambi forma rendendo necessario l’intervento”, spiega in questa intervista Dana Reza, Harvard ophthalmology, direttore dell’Harvard-vision clinical scientist development program e co-direttore del Cornea Center of excellence della Harvard medical School, membro del Phd program in immunology Harvard University.

La prima causa di fallimento dei trapianti è ancora oggi il rigetto, anche se in percentuale sempre minore rispetto al passato. Normalmente la terapia topica è sufficiente a eliminare questo rischio, con utilizzo di colliri steroidei che riducono la risposta infiammatoria mentre in alcuni casi più complessi si prescrivono nuovi farmaci che hanno la funzione di ridurre e controllare l’attività immunitaria a livello sistemico. Tuttavia, in tale seconda ipotesi, “il paziente – osserva il nostro esperto – è più esposto al rischio di contrarre altre malattie, in particolare le infezioni, perché il sistema immunitario non è in grado di produrre una risposta efficace”.

Proprio per questo, l’uso di questi farmaci è riservato solo “a un paziente su mille o a uno su 500”, aggiunge il professor Reza.

Esistono poi altri metodi per limitare le complicanze, come ad esempio il controllo della neovascolarizzazine, elemento anatomico di rischio.

Infine, la ricerca è di recente giunta a individuare le molecole che causano il rigetto e a sviluppare dei colliri specifici contenenti degli anticorpi in grado di colpirle senza interferire in maniera massiva sull’intero sistema immunitario.

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